La lettura di “Tre piani” di Eshkol Nevo mi ha profondamente destabilizzata. Se all’inizio, infatti, la narrazione mi sembrava irresistibile, travolgente, a tratti angosciosamente affascinante, ben presto mi sono ritrovata a chiedermi in che genere di testo fossi incappata – e a darmi ben poche risposte -. Il romanzo di Nevo usa un espediente insolito per narrare le sue storie: diviso in tre parti – ognuna corrispondente a un livello del condominio nel quale le vicende hanno luogo -, l’io narrante, ogni volta diverso, si rivolge a un ascoltatore immaginario (nell’ordine: l’autore del testo, un’amica di penna, la segreteria telefonica), e costruisce un castello di carte nel quale si fatica a riconoscere la finzione dalla realtà. I personaggi, ogni volta diversi, e ogni volta al limite dell’assurdo, non sono mai riusciti a farmi empatizzare con le loro problematiche, rendendosi, ai miei occhi, sistematicamente odiosi. A volte perché colpevoli di leggerezze imperdonabili, a volte perché sfrontatamente incoscienti, altre ancora per una forma di passività disarmante, salvo poi lamentarsi delle proprie miserevoli condizioni. Non esiste, nel testo, un vero eroe narrativo, né una crescita personale e concreta dei vari protagonisti. Inoltre, l’espediente editoriale di definirlo un “romanzo”, come riportato in copertina, mi ha costretta nella lettura di quella che definirei senza dubbio una raccolta di racconti (forma narrativa che non amo) che ben poco hanno in comune se non il solo fatto di svolgersi nel medesimo palazzo. La prosa, indubbiamente apprezzabile, riesce comunque a spronare il lettore ad avventurarsi fino alla fine, per poi metterlo di fronte alla presa di coscienza che tutti i dubbi scoperchiati dall’autore non avranno nessuna risposta al di fuori della propria personalissima interpretazione. Un testo a cui va riconosciuto il merito di spiazzare e coinvolgere, ma a cui manca uno snodo narrativo capace di risolvere le dinamiche instauratesi. Certamente riuscito dal punto di vista sperimentale, lascia un senso di incompletezza che, a tratti, si traduce in insoddisfazione.
Stefania Russo