Luigi Calabresi è stato un poliziotto italiano, un funzionario di Polizia. Venne accusato dall’opinione pubblica di sinistra di responsabilità nella morte di Giuseppe Pinelli che era stato tenuto illegalmente per giorni in questura e che precipitò dalla finestra di un ufficio del quarto piano. Era il 15 dicembre 1969. Gli anni di piombo. L’istruttoria terminò nell’ottobre del 1975 con una sentenza assolutoria per Calabresi, scagionando completamente la polizia e classificando quella di Pinelli come morta accidentale. Ma il 17 maggio del 1972 Calabresi era stato assassinato a Milano mentre saliva in auto al mattino per andare a lavoro. Aveva 34 anni, una moglie incinta e due figli piccoli. Questi sono i fatti. Insieme a molti dettagli e storie di altre vittime del terrorismo di quegli anni, Mario Calabresi – suo figlio – ci racconta la storia di un’Italia che tutti dovremmo conoscere perché è parte di noi, più di quanto si creda. Parla da figlio, da vittima, da disperato perché é così che ci si sente quando ingiustamente ti uccidono un genitore, un fratello, un coniuge. “La pena di coloro ai quali è stato ucciso un marito o un fratello non credo che sia mai finita e in ogni caso la sua fine non è certificabile con un timbro su un pezzo di carta. La disparità di trattamento tra chi uccise e che venne ucciso è irreparabile, continua negli anni aggravata dal fatto che chi allora uccise scrive memorie, viene intervistato, occupa posti di responsabilità, mentre alla vedova nessuno va a chiedere come vive da allora senza marito, se il tempo trascorso ha chiuso le ferite, il rimpianto, il dolore” Mi è piaciuta molto questa frase, pronunciata dalla madre di Mario “non permettere che altri decidano ancora il tuo destino, lo hanno già fatto quando eri bambino”. Un lutto diventa una voragine, a volte ti travolge, poi il tempo ti insegna a conviverci. Ma dimenticare non puoi. Mai.

Maria Valentina Luccioli