“NOVANTATRÉ”: UNA LETTURA CRITICA

Attenzione: la seguente recensione può contenere spoiler. Si invita pertanto chi non ha letto il romanzo e non fosse interessato a scoprire dettagli sulla trama ad astenersi dal proseguire nella lettura.

“Novantatré” è l’ultimo romanzo scritto da Victor Hugo, pubblicato nel 1874.
Dopo la decisione di non scrivere una trilogia su Aristocrazia-Monarchia-Rivoluzione, come annunciato nella Prefazione de “L’uomo che ride”, Hugo pensò di creare una trilogia dedicata esclusivamente alla Rivoluzione, di cui “Novantatré” sarebbe stato il primo romanzo. Questa trilogia, tuttavia, non vide mai la luce.
Il tema principale del romanzo è la pesante questione del valore della Rivoluzione francese nella sua oscura variante di Terrore: rinascita dell’Europa e trionfo della democrazia, oppure nuova apoteosi del crimine e del massacro?
Il romanzo, pubblicato da Michel Lévy, conobbe un grande successo fin dalla sua prima apparizione. Hugo considerava “Novantatré” una delle opere più importanti uscite dalla sua penna: «Sono alle soglie di un grande lavoro da portare a termine», scriveva il 10 gennaio 1863 (più di dieci anni prima della pubblicazione!). «Esito di fronte all’immensità che al tempo stesso mi attira. È “93”.»

“Novantatré” è il romanzo finale della produzione di Victor Hugo, l’ultimo capolavoro del genio francese del XIX secolo letterario. E possiede tutte le peculiarità che lo rendono un romanzo ultimo e supremo.
Abbiamo ormai imparato a considerare i romanzi hugoliani sempre sotto una doppia luce: l’aspetto sentimentale e l’aspetto sociale. Seguiremo questo percorso anche per “Novantatré”.
Nello scrivere il suo ultimo romanzo, il padre del Romanticismo francese ha al tempo stesso tenuto fede e corretto il tiro alle caratteristiche proprie del suo stile, soprattutto nell’ambito dell’espressione dei sentimenti. Se si osserva bene, “Novantatré” è il solo romanzo di Victor Hugo ove l’amore di un uomo per una donna (e viceversa) non compaia. Non troviamo gli amori consueti del repertorio romantico: niente giovani osteggiati, niente “bella e la bestia”, niente eroe e donna “angelicata”. I soli sentimenti che Victor Hugo ha ritratto in “Novantatré” sono i grandi sentimenti familiari: l’amore di una madre per i suoi bambini (Michelle Fléchard), l’affetto di un tutore per il suo allievo (Cimourdain), l’ammirazione di un nipote per il vecchio zio (Gauvain), l’empatia di un anziano per dei bambini indifesi (Lantenac). Questi sentimenti (descritti con una forza che, forse, Hugo non aveva mai conosciuto altrove) prendono l’aspetto di emozioni difficili, talvolta contrastate (si vedano Cimourdain e Gauvain, o Gauvain e Lantenac), con un senso di dramma profondo che, in una vertiginosa climax, cresce nel corso della narrazione per esplodere col finale. In questo mondo sentimentale un po’ atipico vibra un afflato potente ed espressivo pressoché irrefrenabile. E, nei personaggi di Novantatré, c’è tutta la tragedia degli affetti familiari di Hugo: il genitore che vede i figli in pericolo, il giovane che nutre degli ideali in contrasto con quelli del vecchio, sono delle figure che ci rimandano alla biografia di Hugo, e che, conseguentemente, danno una tinta tutta nuova al romanzo.
D’altro canto, c’è l’onnipresente tematica sociale. In “Novantatré”, l’«asfissia sociale» è incarnata al massimo grado da Tellmarch, il contadino che, come ha scritto Jana Dietsch, «si ritrova al tempo stesso lontano da tutto e al centro di tutto, e non si lascia mai inquadrare precisamente». Quest’uomo che non combatte né per i blu né per i bianchi, preferendo aiutare gli indigenti, ci ricorda il personaggio di Gilliatt ne “I lavoratori del mare”: come Gilliatt, Tellmarch è al di fuori della società, e s’interroga su di essa. «I poveri, i ricchi, che cosa atroce,» dice a Lantenac nel capitolo IV del libro IV della Prima Parte. «È questo che provoca le catastrofi. Perlomeno, questa è la mia impressione. I poveri vogliono esser ricchi, i ricchi non vogliono diventare poveri.» E non bisogna dimenticare che le parole di Tellmarch s’inseriscono in un contesto ben preciso: la Vandea è in fiamme, e i fratelli si uccidono in battaglia. È una guerra di miserabili, che soffrono e muoiono, agli occhi di Tellmarch, una lotta animalesca. Quale lotta? La Rivoluzione, ormai degenerata nel Terrore.
Hugo si era molto interrogato sul tema della rivoluzione nel corso della sua intera vita. L’interessante, per noi posteri, è l’evoluzione di questa tematica nell’opera hugoliana.

«Fedele alfine al sangue che han versato nelle mie vene
Mio padre, vecchio soldato, e mia madre vandeana.»

Con queste parole, Hugo aveva terminato la sua poesia “Questo secolo aveva due anni” (1831), una sorta di presentazione in versi. Perché citarle? Perché questa frase ci permette di comprendere che il tema della rivoluzione, per Hugo, è strettamente legato a quello delle sue origini ideologiche e politiche, ovvero alla differenza fra le tendenze progressiste e volteriane del padre e quelle monarchiche e conservatrici della madre. Ma vediamo quello che Yvette Parent ha scritto a questo proposito: «Victor Hugo è un meticcio per eredità politica (“Mia madre vandeana, mio padre vecchio soldato”), meno di quanto sembri, con buona pace delle migliori biografie; perché da questa madre vandeana eredita il XVIII secolo e lo scetticismo religioso, e dal “vecchio soldato” una certa prudenza nel guardare agli obiettivi rivoluzionari della guerra di Vandea e di Napoleone stesso.»
Già nel suo primo romanzo, “Bug-Jargal”, la rivoluzione (quella dei neri di Santo-Domingo) ricopriva un ruolo di prim’ordine. Qui, la rivoluzione era un atto giustificato, in quanto i rivoluzionari erano degli oppressi; ma i mezzi utilizzati erano ingiustificabili. La critica di “Bug-Jargal” è una critica alla violenza gratuita e vile che scoppia durante le rivoluzioni e, conseguentemente, una critica a tutte le rivoluzioni, viste con un certo sospetto. Il sangue di Sophie Trébuchet, madre vandeana e monarchica di Hugo, ha quindi in “Bug-Jargal” un peso maggiore rispetto al sangue di Léopold Hugo, padre vecchio soldato e “blu” di Victor.
Questa concezione cambia molto, col tempo. Ne “I miserabili”, un uomo misterioso (G.) dice a Monsignor Myriel (I, I, X): «Il diritto ha la sua collera, signor Vescovo, e la collera del diritto è un elemento di progresso.» Nuovo parallelismo: rivoluzione – progresso. Possiamo facilmente immaginare che questa posizione sia condivisa da Hugo come sarà condivisa dagli Amici dell’ABC più tardi, nel romanzo. Sì, la collera della rivoluzione è giustificabile; anche se (gli episodi delle barricate del ’32 parlano chiaramente) la violenza può talvolta divenire inumana.
Con “Novantatré”, Hugo giunge alla sua concezione finale intorno alla rivoluzione. Cosa è cambiato, in lui? Cosa è accaduto, in Francia, per farlo approdare alla sua nuova sensibilità (che vedremo fra poco)? La Comune di Parigi.
Questo governo provvisorio, instaurato nel settembre 1870 dopo la disastrosa sconfitta della Francia a Sedan e represso con la forza dal governo ufficiale di Versailles (25 000 morti) nel maggio 1871, che aveva rappresentato una speranza per i repubblicani e i progressisti e che era stato soffocato brutalmente, era uno choc ancor vivo nel 1874. Hugo si ricordava delle rivolte nel cuore della capitale, e la Rivoluzione del ’93 si era sovrapposta nella sua mente, poco a poco, a quella del ’71.
È, quindi, dal dramma della Comune che ha origine la nuova concezione della Rivoluzione formulata da Victor Hugo. Vediamo di analizzarla, articolandola in due punti essenziali.
Primo punto, o meglio, primo dramma: l’uomo è un soggetto attivo nella Rivoluzione? Oppure è un oggetto, in balia di una sorta di necessità? Ne “I miserabili”, gli uomini erano i protagonisti delle rivolte: erano gli uomini a fare la rivoluzione. Ma in “Novantatré”, questo protagonismo dell’uomo è messo in discussione. Come ha scritto Francesco Saba Sardi, in questo romanzo «il protagonista è la Rivoluzione nel suo avatar di Terrore, i singoli non ne sono che la casuale, o più o meno necessaria, espressione.» È una condizione di crisi, accostabile a quella di Gwynplaine ne “L’uomo che ride”, quella che domina i personaggi: non sono pienamente faber sui, padroni del loro destino.
«La rivoluzione è un’azione dell’ignoto», scrive Hugo nel primo capitolo del Libro III della Seconda Parte. «[…] Gli eventi dettano, gli uomini firmano. […] La Rivoluzione è una forma del fenomeno immanente che ci assedia da ogni lato, e che noi chiamiamo Necessità.» Con quali potenti parole Hugo descrive la condizione dell’uomo di fronte alla Rivoluzione! L’uomo si trova scostato dal centro dell’azione: là, c’è la Necessità, l’Ἀνάγκη che avevamo visto in azione in “Notre-Dame de Paris”. Quale sia la natura di questa Necessità, impossibile saperlo.
Secondo punto, secondo dramma: qual è la parte del torto e quale quella del diritto? E soprattutto: la Rivoluzione è una conquista per l’umanità, o un trionfo del delitto?
In questa condizione di decentralizzazione dove l’uomo si trova ad essere di fronte alla Necessità, egli deve prendere posizione. Nel ’93, questo significa: Monarchia o Repubblica? Potremmo pensare che, per Hugo, la scelta sia facile. Infatti, non è forse chiaro lo sdegno dello scrittore di fronte al massacro compiuto dal monarchico Lantenac nel Libro IV della Prima Parte?
In realtà, la situazione è ben più complessa. Hugo è abbastanza vecchio e saggio da poter permettersi una certa oggettività, e riconosce che i crimini perpetrati dai Monarchici non sono distanti da quelli dei Repubblicani. Dopotutto, quali sono le anime della Convenzione, organo supremo della Repubblica? Robespierre, Danton, Marat, i capi carismatici con le mani sporche di sangue.
Come può l’intellettuale schierarsi in questa lotta? «L’unico metro di misura certo è l’amore,» scrive Saba Sardi. «È il cuore. Una forma di conoscenza – di partecipazione – che è propriamente romantica.» Di fronte a questo «grande transito d’ombre» (II, III, I), l’uomo deve lasciarsi condurre dal sentimento, che non è una passione cieca, ma una condizione intima dell’esistenza. È per questo che il solo personaggio che veramente partecipa degli ideali di Hugo e della sua sensibilità è il giovane Gauvain, il repubblicano indignato di fronte alla brutalizzazione che lo circonda. Come Gauvain riconosce la grandezza di suo zio, salvatore di tre bambini, arginando le differenze di colore politico, anche Hugo è pronto a puntare il dito contro i suoi. La sola bandiera di Hugo – ed è una fede profondamente umanistica, per quanto l’uomo resti dominato da forze misteriose – è la fede nell’intima grandezza dell’essere umano.
Di fronte al crimine del ’93, Hugo riconosce che ha avuto luogo un avvilimento degli ideali del 1789: «Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, sono dogmi di pace e armonia. Perché dar loro un aspetto terrificante?» dice Gauvain nel VII capitolo del Libro II dell’ultima parte. «[…] Abbattiamo le corone, risparmiamo le teste. La rivoluzione è concordia, non già lo spavento.» Quando la Rivoluzione diventa Terrore, Hugo è pronto a dissociarsi. Come per la valutazione su quale sia la parte del giusto, per la valutazione sul valore della Rivoluzione Hugo fa affidamento sul solo metro di giudizio possibile: l’amore e il rispetto per l’essere umano e per la sua vita.
“Novantatré” risulta essere, dunque, un dramma d’esistenze grandi e piccole, che si trovano al cospetto di una immensità fuori e dentro di loro. Non è difficile comprendere perché Hugo fosse così esitante e attirato davanti a questo progetto: il suo ultimo romanzo resta, per noi, un capolavoro di proporzioni ineguagliabili, una storia di passioni umane, una sfida sociale, una condanna di tutte le guerre, una potente riflessione sul destino e sul libero arbitrio, un titanico testamento artistico e spirituale.

Eugenio Trovato