Ho scoperto da poco Marguerite Duras e me ne rammarico. Sebbene il suo stile sia molto asciutto, diretto e secco, con frasi semplici, a volte quasi senza subordinate, ma non assolutamente banali, si lascia leggere come un fiume in piena, perché quello che abbiamo di fronte è proprio una narrazione scritta tutta d’un fiato. Di fatto la vicenda è quella già raccontata ne “L’amante”, pubblicato qualche anno prima: la storia passionale e proibita tra una ragazzina bianca (la Duras) e un facoltoso uomo cinese nell’Indocina francese negli anni ’20. Perché allora l’autrice la riscrive? Perché un giorno le arriva la notizia della sua morte e sente fortemente il bisogno di sondare di nuovo nella sua memoria, regalare al lettore nuovi dettagli e rivivere le sensazioni vissute decenni prima. Nonostante sia narrato in terza persona e la Duras si riferisca a stessa come “la bambina” e al suo amante come “il Cinese”, ho trovato queste memorie molto più introspettive, e più coinvolte nella storia; infatti, mentre nel romanzo precedente la Duras prende una certa distanza affettiva dagli eventi, qua invece dà sfogo a tutte quelle sensazioni che aveva represso anche nella realtà quasi facesse una confessione. Lacrime assicurate perché in fin dei conti “La storia c’è già, già inevitabile. Quella di un amore accecante. Sempre in divenire. Mai dimenticato.”
Luana Indelicato