La morte, la fanciulla e il canto dei pioppi.

Era mezzogiorno, da poco probabilmente. Era facile da capirlo, sebbene non avesse mai posseduto quell’aggeggio con il ticchettio che misurava la corsa degli anni sul polso. L’aveva visto in televisione, le rare volte che le fu concesso, e le sarebbe piaciuto toccarlo, porgerlo come un dono alle orecchie. Chissà se anche il tempo si fermava, quando smetteva di funzionare, se come per magia tutto si arrestava in una fotografia. Anche lei, certo anche lei si sarebbe fermata con il resto. Orrore, faceva spavento solo a pensarlo!
La luce del sole, alta e verticale era la bussola da seguire nel consueto giro randagio per i campi. Oltrepassò una breve fila di case antistanti le une alle altre, opposte fazioni di idee più o meno forti di miseria e sopravvivenza. Ora che ci pensava, tra quelle due a destra qualcuno possedeva dei buoi, era alquanto insolito da quelle parti. Tirò dritto, calpestando pigramente la terra bruciante al contatto con i piedi scalzi, andando avanti spinta da una forza irresistibile. L’aveva sentita altre volte, la sentiva sempre. Doveva camminare e andare, come se ogni giorno fosse un tentativo di evasione ben riuscito. La prigione l’aveva dentro, la trascinava e portava con sé, ma era ancora troppo presto per trovarla, almeno fino a pochi istanti prima che la luce di un sole qualsiasi le indirizzasse gli occhi sui filari di pioppi. Li amava, dio quanto li amava! E un dio c’entrava con quegli alberi, perché lei li sentiva cantare quando il vento li corteggiava con insistenza e questi agitavano dita che cambiavano colore dal verde all’argento. Non aveva mai creduto, nonostante le preghiere imposte e recitate a mani giunte, nonostante le minacce di un futuro infernale per i riottosi come lei. Tuttavia desiderava, contro i suoi dubbi e rifiuti, che un’entità diversa e migliore degli uomini esistesse, che si nascondesse lì, in quegli alberi sottili e gentili, che le rimescolavano lo stomaco senza ragione e la costringevano a provare qualcosa di drammatico e al tempo stesso doloroso e magnifico. Le cedevano le gambe, avrebbe voluto inginocchiarsi e giurare, per chi, per cosa, non lo sapeva. Giurare, non pregare, rappresentava una differenza non di poco conto. Voleva arrendersi, come a dire di essere pronta a servire un destino inutile, di accettare tutto, a condizione di restare lì a godere all’infinito dei suoi pioppi.
Sentì delle voci poco distanti. Diversi paesani entravano e uscivano concitati da un cortile. Non ricordava chi abitava lì, ma non poté fare a meno di avvicinarsi. Vide qualcuno asciugarsi la fronte con il dorso della manica consumata e grezza. Rimase davanti al cancelletto di legno, grezzo anch’esso, come lo era la pelle, gli sguardi di tutti i presenti. Chi aveva scordato di distribuire in quella valle, come in molte altre, una pennellata di bellezza, una limata di delicatezza, un tocco di morbida fragilità? Lo stesso Dio che si manifestava in quell’ululare del vento tra gli alberi? Il grande Padrone, cui dover obbedienza, per l’essere nati servi della fame, l’immenso Assente?
Poi la vide. Una veste bianca, con delle braccia distese per terra, pronte a spiccare il volo, a liberarsi del vestito e della vita. Era giovane, troppo giovane, forse poco più grande di lei. Eccola lì: la morte! Aveva scelto un modo insolito per presentarsi alla sua coscienza. Così bella, così arrendevole, abbandonata senza resistenza a ciò che doveva essere. Guardò i parenti e i curiosi disposti a cerchio e provò un sentimento nuovo.
Fate qualcosa! Non state fermi, fate qualcosa! Perché? Ma la voce le si strozzò in un miagolio ridicolo. Un uomo indicò le mani della ragazza. Le guardò anche lei. Sembravano aver ripreso colore. Fece un movimento del piede per avvicinarsi e notò che era gravato da un peso insostenibile. Urlava nella sua mente di andare per prestarle soccorso, ma il corpo non obbediva. Cercò gli occhi degli altri e non li trovò. Erano tutti ciechi, si trovavano là perché dovevano esserci, ma non avrebbero cambiato né sarebbero stati in grado di cambiare le cose. Pregavano e si battevano il petto, lei li imitò senza capire né aggiungere partecipazione. Le giungeva amplificato, isolato dal resto, solo il suono di qualche goccia che ancora scivolava dal secchio rovesciato, animato dal movimento impercettibile della mano della ragazza, che fino a poco prima l’aveva tenuto. Era arrabbiata, li odiava perché non comprendeva. Forse erano così affascinati dalla morte al punto di considerare il suo compiersi più importante dell’impedirne il compimento? Erano solo rassegnati, consapevoli di non potersi aspettare nulla di diverso. Quali miracoli andava chiedendo a chi era stato scagliato come un verme dal cielo sulla terra? Che altra prospettiva a chi non sapeva fare altro che nascere, strisciare, vivere solo nell’infima posizione degli ultimi, dei reietti, degli scarti?
Aveva gli occhi gonfi di pianto, ma non l’avrebbe fatto, non avrebbe cominciato quel giorno il tributo inevitabile di lacrime scritto per la sorte di ogni uomo. Ne aveva subito anche lei il fascino, forse perché si era presentata così, con una tragica giovinezza evaporata come acqua da un secchio sotto il sole d’agosto, e non l’avrebbe più scordata. Si era fulminata con il filo di una lampadina, ancora penzolante vicino alla carrucola, che tirava su l’acqua. Ironia delle ironie, aveva scelto una piccola vittima che fino ad allora aveva avuto un’esistenza immobile, per portarsela via con la scossa di una tempesta. La morte aveva il senso dell’umorismo, scoprì anche questo.
Decise di tornare a casa. La casa che non c’era, non ci sarebbe stata né allora né mai più, ma un luogo appena abbozzato dalle pareti, sufficiente ad essere racchiuso tra le braccia di qualcuno che l’amava, di altri che non ne erano capaci e che lei avrebbe impiegato anni a perdonare, per imparare ad amarsi a sua volta. Il sole si era già piegato sull’orizzonte, lasciando un fascio obliquo e sfumato sul fondo della collina. Come correva il tempo, come raggrinzivano in fretta i bambini, come andavano via presto i giovani, come tremavano i vecchi sopravvissuti!
L’avrebbe voluto un orologio al polso, l’avrebbe aperto per trattenere la lancetta delle ore, che sembrava la più scortese e cattiva. Si voltò, dando le spalle ai pioppi, parevano ancora chiamarla, ma era stanca, non avrebbe creduto più al loro inganno. Nella voce delle foglie ora sentiva il lamento di tutte quelle anime che sapevano pregare, ma avevano smesso di sperare, che nulla avevano da sognare. Nessun dio era mai stato lì.
Ne faceva parte, volente o nolente era una di loro. Eppure stava tra quelle vite senza nomi e senza volti come se fosse di passaggio e per quanto duro fosse attraversare quel mondo sapeva anche che l’avrebbe amato comunque, di un amore disperato, senza riserve e grato per ogni colpo inferto. Era nata con un difetto, non previsto in quella trama di dolore così perfetto.

Mirela Stillitano

Art. J.F. Millet L’ Angelus