“Ma in se stesso ciascuno di quei freddi prodotti era di una simmetria assoluta, di una gelida regolarità, anzi questo era il loro lato inquietante, antiorganico, ostile alla vita; erano troppo regolari, la sostanza organizzata per vivere non lo è mai fino a tal punto, la vita aborre la precisione esatta, la considera letale”
Anni fa, quando frequentavo il liceo, ho letto “I Buddenbrook” di Thomas Mann e mi è rimasto un bel ricordo di quel romanzo che racconta la storia di una famiglia indimenticabile. Ero partita dunque con ottime premesse quando mi hanno proposto di leggere un altro libro di Mann per un gruppo di lettura. Ne sono rimasta invece abbastanza delusa. È un romanzo molto molto molto lento, dove non accade granché nel corso delle quasi 800 pagine scritte in carattere piccolissimo. Castorp va a trovare il cugino in un sanatorio per qualche settimana ma poi si ammala anche lui e trascorre un’infinità di tempo in questa struttura dove eccentrici personaggi riflettono, riflettono, riflettono… È un libro totalmente introspettivo, in cui i protagonisti filosofeggiano costantemente. Purtroppo io sono una persona molto concreta e, anche quando durante i miei studi mi sono avvicinata alla teologia e alla filosofia, ho sempre cercato di attualizzare i concetti per comprenderli meglio, per “quagliare” insomma e arrivare alla sostanza. Il libro invece si perde nei meandri dei ragionamenti che girano e rigirano tortuosamente per il puro gusto di farlo. Mi spiace dare questo giudizio negativo perché è innegabile la capacità descrittiva e la profonda conoscenza delle teorie antiche e moderne dell’autore. Ho apprezzato per esempio ritrovare nel libro il concetto della relatività del tempo e l’attenzione ai sogni e all’inconscio, tipiche del primo Novecento. Ma per il resto è stato una gran noia. Il finale tragico poi l’ho trovato incoerente: un personaggio che in tutta la lunghezza del racconto sembra inetto e apatico, viene destinato a una fine eroica del tutto in antitesi con la sua esistenza.
Alessandra Micelli