Qualche anno fa sugli scaffali delle librerie è apparso il libro “La donna che scriveva racconti”, un’antologia di alcuni della scrittrice statunitense Lucia Berlin. Il successo di critica e pubblico fu immediato perché se c’è una cosa di questo libro, che è non un parere ma una certezza, è che Lucia Berlin scrive, ahimè scriveva maledettamente bene. Il libro, pubblicato da una meritevole casa editrice (la Bollati Boringhieri trad. Federica Aceto) mette in copertina un ritratto giovanile della scrittrice, senza bisogno di affidarsi a una grafica accattivante; sulla pagina posteriore sopra la biografia un’altra foto la ritrae più matura e incredibilmente somigliante a Elisabeth Taylor. Eppure neanche la bellezza l’aiutò a ottenere in vita il giusto successo, sebbene autori del calibro di Saul Bellow avessero apprezzato i suoi racconti. Come con John Edward Williams, la sua riscoperta è avvenuta postuma, ma mentre dopo ben dieci anni “Stoner” è sempre un best seller, di Lucia Berlin si iniziano oramai a perdere le tracce. Per quel che mi riguarda i suoi racconti, parafrasando una canzone di Leonard Cohen, hanno aperto una crepa ed è da lì che entra la luce.

 

Sulla vita di Lucia Berlin non ci sono molte notizie a parte un’infanzia da nomade, tre matrimoni e quattro figli, ma tutto quello che c’è da sapere c’è lo leggiamo dai racconti (“storie vere ma inventate, come quelle di Alice Munro” viene scritto in copertina).

Leggendo il racconto “Manuale per donne delle pulizie” o il breve, ma tra i miei preferiti “Il mio fantino”, ambientato in un pronto soccorso, capiamo subito che quello che leggiamo è la verità e che la scrittrice conosce bene ciò di cui narra. Ne “Il mio fantino” ad esempio la voce narrante è quella di un’infermiera e dal modo in cui descrive la professione, capiamo che è uno dei vari lavori fatti dall’autrice per sbarcare il lunario. Quando però cita lo scrittore giapponese Mishima, non abbiamo dubbi che si tratta di lei stessa, ma a quel punto l’attenzione si sposta sul dramma dello sportivo che il giorno dopo non potrà partecipare alla gara e poi in pochissime righe, siamo completamente coinvolti con quello che succede. Lucia Berlin non fa nessun mistero sulla sua dipendenza da alcool, che diventa un dato oggettivo del suo essere come il fatto che abbia gli occhi chiari.

La verità è esposta, ma non viene espresso un giudizio o un qualche proposito.

Solo la verità come è sempre stata davanti ai nostri occhi, solo che non ci avevamo fatto caso o non ci era interessata, finché la scrittrice ha provocato quella crepa da cui ora filtra la luce. Lucia Berlin una scrittrice da riscoprire, ma non per la sua memoria o per cercar di pareggiare i conti con quello che la vita non le ha dato. Leggiamola per noi e perché sa scrivere dannatamente bene.

Beatrice Maffei