L’UOMO CHE RIDE: UNA LETTURA CRITICA

Attenzione: la seguente recensione può contenere spoiler, pertanto si sconsiglia la lettura a chi non ha letto il romanzo e non desideri scoprire dettagli sulla trama.

“L’uomo che ride” è un romanzo di Victor Hugo edito nel 1869, scritto integralmente, in un lungo periodo di gestazione durato più di due anni, nella residenza di Guernesey ove Hugo si trovava in esilio.
Nella prefazione del romanzo, Hugo scrive: «Questo libro dovrebbe intitolarsi “L’aristocrazia”. Il prossimo potrebbe chiamarsi “La monarchia”. E se all’autore sarà concesso di portare a termine il suo lavoro, a questi due libri ne seguirà un terzo intitolato: “Novantatré”.» In un secondo tempo, Hugo abbandonò il progetto di creare un romanzo sulla monarchia.
Le critiche negative furono molteplici, fra gli intellettuali dell’epoca, e molti di loro descrissero il romanzo come oscuro, grottesco e orrido. «French indecent writing is like no other […], it is simply and utterly bestial», fu la critica del giornale Times. Ma molti altri scrittori apprezzarono il romanzo: Émile Zola, per esempio, pensava: «”L’uomo che ride” è superiore a tutto ciò che Victor Hugo ha scritto da dieci anni a questa parte. Vi regna un soffio sovrumano.» Il personaggio di Gwynplaine ebbe una grande fortuna anche nel XX secolo: si vedano il film muto del 1928 diretto da Paul Leini e interpretato da Conrad Veidt (che ispirò anche il personaggio di Joker nella serie di Batman) e le numerose citazioni in opere letterarie e cinematografiche.

“L’uomo che ride” è considerato uno dei romanzi più importanti scritti da Victor Hugo. Infatti, tutte le tematiche care al poeta si fondono, in questo romanzo, a formare un solo, grande capolavoro. Ma in quest’opera compaiono anche dei temi nuovi. Per Hugo, “L’uomo che ride” era «un esperimento drammatico fuori dalle proporzioni ordinarie», che avrebbe offerto «a coloro che amano meditare sull’orizzonte pieno di mistero di un libro, più di un punto di vista».
Come nell’analisi di tutte le opere hugoliane, bisogna sempre tenere in considerazione due livelli di lettura ne “L’uomo che ride”: il tema sentimentale e il tema sociale.
Per quanto concerne l’aspetto affettivo, esso è molto presente ne “L’uomo che ride”. E, se si osserva con attenzione, l’amore che agisce in questo romanzo è molto più simile al sentimento che avevamo trovato in “Notre-Dame de Paris” piuttosto che a quello de “I miserabili”, per fare un esempio: è un’emozione totalizzante e fatale, che domina l’esistenza degli individui, che è al tempo stesso vita e morte. Prendiamo i protagonisti, Gwynplaine e Dea: sono destinati ad amarsi, non solo per la casualità che li ha portati ad incontrarsi, ancora in fasce, ma soprattutto per le loro deformità. Gwynplaine è orribile, Dea cieca: le loro imperfezioni si completano, e il loro amore è un amore totale perché radicato nel loro essere, e inevitabile per permettere loro di vivere. È un sentimento così complesso che il lettore non riesce a comprenderlo facilmente. «Del loro inferno avevano fatto il cielo; tale è il tuo potere, amore!» commenta Hugo nel capitolo V del Libro II della Seconda Parte. È l’amore di due fratelli, di un fedele per un dio, di un amante per l’amato. Ma, nel panorama dell’amore de “L’uomo che ride”, non si può evitare di citare Josiane, la duchessa bella e maledetta. Hugo lo dichiara dall’inizio: Josiane è la «carne». È il sesso, la bellezza profana, l’esuberanza di un’emozione che si piega su se stessa, come possiamo vedere nella memorabile immagine dei multipli specchi nella sua camera (II, VII, III). Josiane è l’amore per i nobili: frivolo, si consuma in un istante; Dea è l’amore per coloro che provano dei sentimenti: poiché abbraccia tutta un’esistenza. Ma il finale della storia non lascia speranza al vero amore: solo nelle tenebre profonde, quelle che avviluppano il sentimento ne “L’uomo che ride”, potrà realizzarsi questa passione, quasi fossimo trasportati nel pensiero schopenhaueriano.
Se lo scarto fra la ricca aristocrazia e la massa miserabile si definisce anche nel quadro del sentimento, è ben più marcata se consideriamo “L’uomo che ride” come un romanzo sociale. Fin dalla Prefazione del 1869, ove Hugo annuncia l’ideazione di una trilogia composta da “Aristocrazia”, “Monarchia” e “Novantatré”, il messaggio politico è molto chiaro. E, anche se Hugo non realizzerà mai un libro dedicato alla monarchia, il progetto iniziale non sarà mai completamente accantonato. In effetti, la critica all’aristocrazia e all’egoismo della classe nobiliare resta un tema centrale in questo romanzo. La denuncia dell’ipocrisia delle corti e dei cortigiani è ben evidente in uno dei personaggi più importanti della storia, Barkilphedro, il vero motore della fabula, che – per vendicarsi di un padrone crudele – dà inizio alle disgrazie di Gwynplaine. La spietatezza del mondo della corte è reso in tutta la sua perversione con un incredibile realismo. «Chi a corte dice fiducia, dice intrigo, e chi dice intrigo dice carriera», è scritto nel capitolo VII del Libro I della Seconda Parte. Ma chi fa le spese di questo mondo d’intrighi e atrocità? I miserabili. Gwynplaine dice, un giorno, che «il paradiso dei ricchi è fatto con l’inferno dei poveri» (Seconda Parte, Libro II, capitolo XI). È una grande verità, fra i più alti ideali espressi da Hugo. E come dimenticare il discorso alla Camera dei Lord (Seconda Parte, Libro VIII, capitolo VII), nel quale Gwynplaine-Lord Clancharlie ha il coraggio di affermare che i nobili insultano la miseria («Mylords, voi siete i grandi e i ricchi. È pericoloso. Voi approfittate della notte. Ma state attenti, c’è una grande potenza, l’aurora. L’alba non può essere vinta…»), che la nobiltà non ha vere giustificazioni («Chi è il padre del privilegio? Il caso. E chi è suo figlio? L’abuso. Né il caso né l’abuso sono solidi. Un brutto futuro li aspetta entrambi»), e aggiunge: «Oh, siete potenti, siate fraterni; siete grandi, siate dolci»? Non è difficile comprendere come, in questo discorso vibrante di orgoglio e indignazione, siano evidenti «gli echi di analoghe e ingloriose imprese parlamentari dello stesso Hugo» (Bruno Nacci). Ma il romanzo si chiude come s’era aperto: gli umili non vengono riconosciuti dai nobili, la situazione non è cambiata. Anche nell’ambito sociale, un cupo pessimismo domina L’uomo che ride.
E quest’ombra, la si percepisce ancor meglio se si esce dalla storia e si osserva dall’alto l’insieme del romanzo. Perché Hugo diceva che il romanzo avrebbe offerto «a coloro che amano meditare sull’orizzonte pieno di mistero di un libro, più di un punto di vista»? Perché “L’uomo che ride” è “metateatro”, ovvero una riflessione sul senso stesso del raccontare.
Se si guarda bene, il romanzo è la storia di una troupe di attori. Gli attori fanno delle rappresentazioni, come “La sconfitta del caos”, e il lettore è immerso in una doppia finzione: quella del romanzo, e quella della rappresentazione teatrale. Hugo gioca con i metodi classici del teatro in un romanzo. Perché?
Perché ogni stratagemma narrativo, in questo romanzo, è finalizzato all’agnizione, detta anche anagnorisis. Di cosa si tratta? È una soluzione classica della narratologia, nella quale il lettore scopre, al termine della storia, la vera identità di un personaggio, che non si era potuta prevedere. È un topos molto sfruttato nella storia della letteratura: si pensi all’”Edipo re” di Sofocle o alle commedie latine di Plauto e Terenzio, ove i protagonisti scoprono alla fine la loro stessa identità.
Hugo fa uso, quindi, di un topos letterario. Ma, ne “L’uomo che ride”, l’agnizione è privata di ogni significato. Infatti, Gwynplaine scopre la sua vera identità, ma non può risolvere la sua situazione, non può togliersi la maschera perché la maschera è il suo volto. «Mentre l’eroe classico fa sempre ritorno a casa, ovvero presso di sé, l’eroe moderno non vi riesce. La maschera che Gwynplaine non può strapparsi dal volto […] si rivela come la prefigurazione di uno smarrimento dietro cui si cela la terrea presenza del nulla», come ha magistralmente scritto Bruno Nacci.
Ed ecco, tutto il dramma de “L’uomo che ride” è nell’impossibilità dell’eroe di risolvere il suo conflitto, d’incolpare un destino o una divinità e di uscire dalla finzione dove è stato catapultato, senz’alcuna responsabilità diretta.
Questo senso drammatico è ulteriormente accresciuto da elementi che possono venire soltanto dalla penna di un Victor Hugo all’apice della sua grandezza. Per esempio, è da notare il ruolo che esercita, ne “L’uomo che ride”, il gioco dei contrari. Alla bruttezza esteriore di Gwynplaine si oppone, seguendo la tradizione romantica della «feconda unione del grottesco e del sublime», la sua bellezza interiore; al difforme Gwynplaine, la bella Dea; alla purezza di Dea, la sensualità di Josiane; all’uomo Ursus, poeta dei poveri, il lupo Homo; alla cruda luce della vita dei nobili, la rassicurante ombra della vita degli umili.
Il fil rouge di questa storia così complessa e densa di chiavi di lettura è rappresentato da un elemento sempre presente nell’opera hugoliana dell’esilio e riecheggiato anche in certi disegni del poeta (come “Ma destinée”, degli stessi anni de “L’uomo che ride”): il mare. È nel mare che la storia ha inizio, col naufragio dei comprachicos, è dal mare che emerge la verità sull’identità di Gwynplaine, è nel mare che termina la tragica vicenda dell’”Uomo che ride”.
Questo tema del mare è importante in quanto ci permette anche di inquadrare il romanzo nella biografia di Victor Hugo. Già nella dedica de “I lavoratori del mare”, Hugo aveva parlato dell’isola di Guernesey come «mio asilo attuale, mia probabile tomba». Nel suo amore per la Francia, aveva scelto l’esilio durante la dittatura di Napoleone III, e ora questo luogo selvaggio dove si trovava lo spaventava. Il mare in particolare, espressione della forza bruta della natura, indomita e indomabile, era fonte di desiderio e timore. Ne “L’uomo che ride”, il mare possiede tutte queste caratteristiche, e questo ci fa comprendere come la sostanza profondamente drammatica di questo romanzo sia, in realtà, la sostanza profondamente drammatica dell’esistenza di Victor Hugo.
Nella storia di Gwynplaine, dunque, c’è dell’autobiografia. Ma è sempre e comunque la dimensione universale dell’opera hugoliana che dev’essere sottolineata. Con “L’uomo che ride”, Victor Hugo ha ritratto la tragedia dell’eroe contemporaneo, con i suoi aspetti sublimi e i suoi lati oscuri, e con una forza e una potenza stilistica fuori dall’ordinario.

Eugenio Trovato