“Inverno” è la storia millenaria di una natura che trattiene il respiro. Raccontare l’inverno significa parlare della stagione della sospensione, tanto dei lavori agricoli, quanto della guerra. E’ uno dei momenti più forti dell’anno, scandito da riti religiosi e dalla speranza di rinnovamento essi esprimono. Così mi ritrovo dentro, al caldo del fuoco acceso in una stanza, il silenzio tutt’attorno. Leggere l’inverno mi riporta, nei secoli, a cacciatori, a ritirate militari estenuanti, al gelo dei monasteri, a lunghe veglie davanti al fuoco. La storia comincia quando non eravamo tanto diversi dagli altri animali. E poi va su, nei secoli, per feste, tradizioni, abitudini quotidiane e battaglie e tanto ancora. Per cominciare, il primo inverno della terra, mi colpisce per la sensazione che si scorge attraverso le prime pagine di lettura. “Chiudiamo gli occhi e facciamo che una folata, gelida spenga d’improvviso il fuoco innanzi a noi, e che le pareti si dissolvano lasciandoci soli in una terra bianca e gelata; poi scompaiono le case, gli alberi e le strade. E quella immensa piana scintillante di neve, prenda a prolungarsi all’infinito innanzi a voi, in ogni direzione. Accendiamo le luci del cielo: le stelle così tante da sembrar caderci addosso, e una danza verde all’orizzonte, il chiarore di un’aurora boreale che muove i nostri volti e le nostre ombre. (…) Siete soli in un deserto di ghiaccio e quindi del mondo sapete poco. Ma se foste in grado di alzarvi in volo, come uno di quei corvi che tingono di nero il tramonto, allora vedreste che di questo gelido deserto non vi è alcuna fine.” E’ il tempo dell’inverno della terra, l’ultima grande glaciazione, prima che cominci a scorrere l’orologio della civiltà. E’ proprio così che immagino se chiudo gli occhi e con la mente vago sino a trentamila anni addietro. Si, perché è quella la distanza temporale dove noi abbiamo iniziato ad essere quello che siamo. Fu il freddo a farci mettere in marcia verso altre terre, in cerca di zone più miti. Faceva ancora freddo quando abitavamo case scavate nel terreno, o issavamo muri di pellame di animali e con le loro ossa e un po’ di legna, ci si riscaldava davanti al fuoco da cui saliva fumo e odore acre. I primi strati di civiltà li abbiamo messi addosso a cominciare da li. E chissà se quel sollievo che sentiamo, nel chiudere la porta davanti ad un camino acceso, non sia ancora memoria di quella solitudine di quel infinito primo inverno che abbiamo imparato a sopportare. Assieme con Vanoli, lui con la scrittura ed io con il piacere di leggerlo, attraverso la storia passando diversi argomenti dalle battaglie medievali, ai monasteri pieni di misteri oltre che di freddo, dai primi inverni immaginati nella pittura, a quelli descritti in letteratura, spaziando dai Paesi Bassi, al Medio Oriente per giungere fino alla Grande Russia degli Zar. Mi accorgo, leggendo, che questo racconto mi porta verso l’attesa. Ho cominciato col silenzio tutto attorno, e alla fine di questa lettura mi rendo conto che il silenzio, il buio, l’abbandono fanno paura, ma in fondo vogliamo credere ad una inesausta speranza di rinascita che ci portiamo dentro. E’ questa l’attesa che traspare nella lettura. Ormai è l’alba ed io ho finito. Possiamo spegnere le luci e riporre le coperte. Il fuoco è quasi spento, son rimaste poche braci accese. Tra poco i rumori assordanti delle macchine e i fumi delle fabbriche torneranno ad inquinarmi l’anima. La lezione del freddo è antica, e l’esercizio della storia serve a rimettere a posto i pezzi. Allora, per un attimo, provo a richiudere gli occhi, forse la stanchezza, una folata gelida…tutto si dissolve…la piana di neve si stende innanzi a me…in ogni direzione, ed io sempre con gli occhi chiusi, attendo di tornare.
Giuseppe Romito