È come quei luoghi che frequenti da sempre, che conosci a memoria, e sapresti dipingere ad occhi chiusi in ogni singolo particolare, che ti sono familiari e hanno il potere di farti sentire a casa anche se una casa lì non c’è. Ecco, quegli stessi luoghi nei quali per caso ti ritrovi al buio, da solo, e che per qualche strana ragione l’oscurità improvvisa trasforma e rende minacciosi e pericolosi: sono diventata uno di quelli.
Qualcosa spense la luce e ciò che vidi mi apparve di colpo estraneo. Scricchiolavo, diventavo ombre e rumori sinistri, cigolii che mi facevano sobbalzare, cercare ovunque un riparo, annaspando nel vuoto. Ansimavo e sudavo freddo, avevo un alieno in corpo, ma il corpo stesso diventava un nulla sconfinato dove rifugiarsi sarebbe stato anche peggio. Non mi ero più familiare e domandarsi se mi fossi mai davvero conosciuta, era un continuo sprofondare nella paura. Se non assomigliavo più alla mia anima e se ogni lembo della pelle non aveva più parentela con la mia vita, se era solo un vestito, che un’altra aveva indossato fino ad allora e che di colpo diventò stretto, chiedersi perché poteva solo aprire la parentesi di un’immensa incompiuta.
Una storia che avevo scritto come un bel compitino a scuola per avere un voto alla mia altezza, lineare, perfetta: tutti gli sforzi che fino ad allora avevo fatto per vivere, si erano ridotti a questo. E invece, dentro avevo lei, l’altra, che ne scriveva una diversa, parallela e meno eccelsa, la beata ignoranza che non avrebbe mai coniugato un verbo della vita con il tempo giusto, che avrebbe volentieri fatto a meno della geografia dei sentimenti e collocato ognuno di loro altrove, affidandoli al caso, che avrebbe insultato la matematica più e più volte e avrebbe moltiplicato l’amore sempre per se stesso e sottratto felicità alla felicità per aggiungere dolore al dolore, perché sapeva gioire solo di questo. Ma ciò che mi colpì, nell’esatto momento in cui mi conobbi rifratta e divisa da buio e luce, è che entrambe fummo colte da quell’incontro come ladre con le mani nel sacco. Volevamo evadere da un foglio rimasto in bianco, per ragioni diverse, solo per un momento, giocare un gioco necessario e proibito (ma sarebbe stato arduo decidere l’ambito del lecito), per rinascere fatte di carne, sogni e istinto. Desideravamo insieme, come pezzi sparsi e separati, nonostante tutto, la stessa cosa: vita, come si desidera sottrarre il filo alla divina Parca, privarla del suo ingrato compito, per averla solo un istante libera da ogni paura, anche contro la sua volontà, sperando di farla franca.
Troppo distratta per vedere chi teneva in mano le forbici e che quel filo da solo non serviva a niente.
Convinta di dovermi redimere dalla colpa di voler giocare ad essere Dio, non mi sfiorò mai il dubbio che stavo soltanto provando finalmente ad essere io.
Io.
Mi chiamavo, ma sapevo che non avrei risposto.
Mirela Stillitano
Estratto da “Una domanda azzurra”