Non riesco bene a classificarlo, non é un romanzo, non c’è una vera storia, non è una guida, anzi non vuol quasi dire l’isola su cui si trova, ma non é neanche un saggio.
Sembra un dialogo con stesso, pensieri bellissimi intendiamoci, sarà la mancanza di tv o di internet a scavare nel profondo? O passare tre settimane su un’isola deserta in un faro? Si svolge tutto su di un isola, attracco difficile, fuori dai tracciati turistici. Paolo va a dividere lo spazio con l’uomo del faro, con i suoi animali domestici: si attiene alle consuetudini di tanta operosa solitudine, spia l’orizzonte, si arrende all’instabilità degli elementi, legge la volta celeste. Il faro sembra fondersi con il passato mitologico, austero Ciclope si leva col suo unico occhio, veglia nella notte, agita l’intimità della memoria (come non leggere la presenza familiare della Lanterna di Trieste), richiama, sommando in sé il “gesto” comune delle lighthouse che in tutto il mondo hanno continuato a segnare la via, le dinastie dei guardiani e delle loro mogli (il governo dei mari è legato all’anima corsara delle donne), ma soprattutto apre le porte della percezione. Nell’isola del faro si impara a decrittare l’arrivo di una tempesta, ad ascoltare il vento, a convivere con gli uccelli, a discorrere di abissi, a riconoscere le mappe smemoranti del nuovo turismo da crociera e i segni che allarmano dei nuovi migranti, a trovare la fraternità silenziosa di un pasto frugale.