A Teresa Pikler
Donna, dell’alma mia parte più cara,
perché muta in pensoso atto mi guati,
e di segrete stille
rugiadose si fan le tue pupille?
Di quel silenzio, di quel pianto intendo,
o mia diletta, la cagion. L’eccesso
de’ miei mali ti toglie
la favella, e discioglie
In lagrime furtive il tuo dolore.
Ma datti pace, e il core
Ad un pensier solleva
di me più degno, e della forte insieme
Anima tua. La stella
del viver mio s’appressa
Al suo tramonto, ma sperar ti giovi
Che tutto io non morrò: pensa che un nome
Non oscuro io ti lascio; e tal che un giorno
Fra le italiche donne
Ti fia bel vanto il dire: “Io fui l’amore
Del cantor di Bassville,
Del cantor che di care itale note
Vestì l’ira d’Achille”.
Soave rimembranza ancor ti fia,
che ogni spirto gentile
a’ miei casi compianse (e fra gl’Insùbri
qual è lo spirto che gentil non sia?).
Ma con ciò tutto nella mente poni,
che cerca un lungo sofferir chi cerca
lungo corso di vita. Oh mia Teresa,
e tu del pari sventurata e cara,
mia figlia! Oh voi che sole d’alcun dolce
temprate il molto amaro
di mia trista esistenza, egli andrà poco
che nell’eterno sonno, lagrimando,
gli occhi miei chiuderete! Ma sia breve
per mia cagione il lagrimar; ché nulla,
fuor che il vostro dolor, fia che mi gravi
nel partirmi da questo,
troppo ai buoni funesto,
mortal soggiorno, in cui
così corte le gioie e così lunghe
vivon le pene: ove per dura prova
già non è bello il rimaner, ma bello
l’uscirne e far presto tragitto a quello
de’ ben vissuti a cui sospiro. E quivi
di te memore, e fatto
cigno immortal (ché de’ poeti in cielo
l’arte è pregio, e non colpa) il tuo fedele,
adorata mia donna,
t’aspetterà cantando,
finché tu giunga, le tue lodi; e molto
de’ tuoi cari costumi
parlerò co’ Celesti, e dirò quanta
fu verso il miserando tuo consorte
la tua pietade; e l’anime beate
di tua virtude innamorate, a Dio
pregheranno che lieti e ognor sereni
sieno i tuoi giorni, e quelli
dei dolci amici che ne fan corona
principalmente i tuoi, mio generoso
ospite amato, che verace fede
ne fai del detto antico,
che ritrova un tesoro
chi ritrova un amico.
Vincenzo Monti (Alfonsine, 19 febbraio 1754 – Milano, 13 ottobre 1828) è stato un poeta, scrittore, traduttore, drammaturgo e accademico italiano. Viene riconosciuto come uno dei scrittori, poeti, traduttori e personaggi accademici italiani del neoclassicismo più importanti di tutti i tempi. Tradusse opere di notevole spessore come La Illiade e Odiseea. Scrisse opere poetiche, tragedie e odi come Amor vergognoso, Amor peregrino, Aristodemo, Elegie, Elegie II, Elegie III, Il consiglio, Il bardo della Selva Nera, Il cespuglio delle quattro rose, Cajo Gracco, In morte di Ugo Bass-Ville, In morte di Lorenzo Mascheroni, L’entusiasmo melanconico, La musogonia, La spada di Federico II, Prometéo, Pensieri d’amore. Ebbe lodi da grandi personaggi dell’epoca come Stendhal, Tommaseo, Alfieri e critici come Foscolo e Leopardi. Il 19 febbraio del 1754 nasceva a Alfonsine, Vincenzo Monti da Fedele Maria Monti e Domenica Maria Mazzari. Muore il 13 ottobre del 1828 a Milano. a causa di un attacco di emiplegia, ma già perse la vista e l’udito tempo prima. Nel 1791 sposò la letterata italiana Teresa Pikler.