La lirica, tanto breve quanto intensamente poetica, fu scritta da Carducci nell’aprile 1880 per la morte di Guido Piva (G.P.) figlio di Lina Cristofori Piva, la donna che fu il grande amore della sua vita, stroncato appena quindicenne da una febbre tifoidea.

Ave

In morte di G.P. (da «Odi barbare»)

Or che le nevi premono,
lenzuol funereo, le terre e gli animi,
e de la vita il fremito
fioco per l’aura vernal disperdesi,
tu passi, o dolce spirito:
forse la nuvola ti accoglie pallida
là per le solitudini
del vespro e tenue teco dileguasi.
Noi, quando a’ soli tepidi
un desio languido ricerca l’anime
e co’ i fiori che sbocciano
torna Persèfone da gli occhi ceruli,
noi penseremo, o tenero,
a te non reduce. Sotto la candida
luna d’april trascorrere
vedrem la imagine cara accennandone.

È certamente soprattutto perché fortemente coinvolto nello straziante dolore della madre per una perdita così atroce che Carducci scrive questa poesia tanto tenera e delicata. A lei, cantata come Lidia in numerose liriche, il poeta si sente particolarmente vicino perché, sebbene fra di loro non vi siano più rapporti amorosi, essa occupa ancora un grande posto nel suo cuore, e perché la sa ammalata di tisi senza alcuna speranza di guarigione (morrà infatti meno di un anno dopo). Certamente l’eccezionale leggerezza di tócco e la visione della morte quasi consolante che caratterizzano questa poesia sono venute naturali a Carducci soprattutto per la sicurezza che essa sarebbe stata letta dalla sventurata madre, e si può senz’altro considerare «Ave» come l’ultima poesia per Lidia. L’apertura è su un paesaggio nevoso nel quale è facile immaginare la morte, ma il «dolce spirito» del tenero adolescente si solleva al di sopra del «lenzuol funereo» delle nevi e fugge alla grevità della terra per dileguarsi in un’arcana regione aerea («Là per le solitudini / Del vespro»). Qui è volutamente esclusa la parola morte ed è eliminata ogni corporeità, si ha solo un sereno ritorno nel seno della «santa natura» anziché una separazione violenta e traumatica. Di natura ancor più elegiaca è la seconda parte di «Ave», nella quale con grande finezza di invenzione il poeta vede «la imagine cara» del morto giovinetto formarsi nel cielo notturno del plenilunio di aprile. Suggestivo e originalissimo è il collegamento tra il ritorno della primavera, e quello dell’immagine di Guido, e altrettanto originali sono le scelte lessicali: specialmente straordinario quel «ricerca», verbo per il quale è quasi impossibile trovare un sinonimo, e che rende con eccezionale sensibilità il dolce ma irresistibile penetrare nelle anime dello struggente languore primaverile. Conferisce infine una speciale intensità poetica a questa strofa finale anche il fatto ,attestato dai verbi al plurale «noi penseremo», «vedrem», che Carducci associandosi con forte partecipazione emotiva al dolore di Lina, si immagina insieme a lei intento a spiare in un cielo lunare di aprile la fugace ed eterea apparizione del «dolce spirito». «Ave» rappresenta insomma una caso di poesia quasi umbratile e dai toni delicatamente sommessi veramente raro in Carducci, e assolutamente affascinante.

Marco Sterpos