Si tolse il pigiama con lentezza, spossata ancora una volta da una lunga febbre e indossò la divisa.
Asciugò con il dorso della manica la fronte umida.
Era stata chiamata a cenare con tutti gli altri nel refettorio dopo giorni di confinamento forzato. Piegò tutto con cura e richiuse l’armadietto senza fare rumore come le era stato insegnato. Scese le scale scalza, deliberatamente privata di un inutile orpello con le stringhe. Sentiva ad ogni gradino il profumo del tramonto, più andava giù, più la luce sfumava nelle tinte che adorava; dilatava le narici come se volesse aspirarle, compensare quella fame d’aria che le tormentava i polmoni. La fine di ogni cosa, banalmente, nella sua mente coincideva con l’inizio di qualcosa di nuovo, anche se ne conosceva in ogni dettaglio lo spirare in una notte senza conforto. Cenò serrandosi in un silenzio impenetrabile, godendo dell’orchestra di stoviglie e voci che la circondava. Non percepiva nessun sapore, non era curiosa di sapere se lo avesse mai sentito il gusto di qualcosa di buono da masticare. Si alzò e andò dritta verso le scale, desiderosa di tornare nel letto. Ma fu trattenuta e portata fuori, lei sola. Fu accompagnata al cancello senza alcuna spiegazione. Dentro una macchina un uomo e una donna l’attendevano. Sollevò le spalle e docile scivolò sul sedile posteriore. Sentì parlottare, vide delle braccia gesticolare. Si erano accorti che non aveva le scarpe e nemmeno altri abiti da indossare. La donna scese dall’auto e tornò con un piccolo borsone rosso e blu, informandola che sarebbe dovuta andare con loro in un posto lontano e che avrebbero impiegato tutta la notte.
Poteva avere paura, doveva averne, e invece scelse di abbandonarsi. Poggiò la testa sul finestrino e rimase incantata a guardare il paesaggio notturno scorrere veloce per poi sfumare e rischiararsi con il ritmo del suo fiato. Tutti e tre taciturni, si accontentarono di sprofondare tra respiri e sospiri. Cambiavano, come cambiava il rumore del motore, gli scossoni di qualche tratto di strada più accidentato, le penombre di alberi, palazzi e villaggi sempre diversi, ma non un suono uscì dalle loro bocche con le parole intrappolate tra i denti.
Stava quasi cedendo al sonno, erano trascorse diverse ore, quando fu sbalzata da una frenata improvvisa. L’uomo e la donna scesero. Una mano l’afferrò e la portò fuori. Ancora una volta notarono che era scalza, la donna prese il borsone, tirò fuori un paio di scarpe e provò ad infilargliele. Erano troppo piccole, ma pazienza non ne aveva e forzò fino a piegarle le dita, stringendo forte per non correre il rischio che se le togliesse, indifferente alle smorfie e alle proteste. Con un cenno sulla spalla la condusse dentro una casa isolata e con il tetto spiovente. Una vecchia li accolse assonnata con un lume a petrolio acceso. Mostrò un letto a castello e andò in un’altra stanza, spegnendo il lume che si era portata dietro. Al buio si distese ancora vestita in quello di sopra con la donna sconosciuta, che non aveva nemmeno visto in volto. Si girò sul fianco, rannicchiandosi per farsi ancora più piccola.
Tossiva. Qualcuno imprecava.
Tossiva ancora più forte, qualcuno mormorava.
Tossiva, qualcuno batteva sul muro.
Tossiva, tossiva, in quel silenzio soffocava e non moriva.
Si girò guardando nell’oscurità la schiena della donna, la curva morbida come un tratto di matita. La mano si sollevò, voleva toccarla, sentire quel corpo vivo sotto le dita. Qualcosa dal profondo della memoria la stava chiamando, forse un ricordo perduto, la nostalgia infantile di una cosa mai avuta. Chissà come sarebbe stato dormire abbracciata, si chiese, ma i polmoni percependo il pericolo di quella debolezza si chiusero e quel vago desiderio sparì dientro un rantolo.
L’alba le ferì gli occhi, incurante del suo sonno smarrito. Saltò dal letto e presto la stanza si riempì di odori contadini e rumori mattutini. La vecchia, i figli, il marito, i suoi accompagnatori, tutti si accomodarono intorno ad un tavolo rustico senza tovaglia, tante marionette senza occhi e senza bocche da poter ascoltare, senza guance da baciare prima di partire. Le offrirono un bicchiere di latte, che mandò giù placando la fame e la sete.
Salutarono e tornarono alla macchina. Proseguirono il viaggio fino ad una pineta. La fecero scendere, la condussero nell’atrio di un palazzo, non tanto dissimile da quello dove stava prima e senza il cerimoniale dei saluti sparirono ingoiati nel nulla dal quale erano comparsi.
L’atrio era pieno di bambini con tante valigie, borse e borsoni che intralciavano il cammino. Salutavano con le lacrime agli occhi parenti e genitori.
Li guardava affascinata, come se lei invece provenisse dalla luna e quei ridicoli terrestri ancora non si fossero accorti della sua presenza.
Era forse giunto il momento di farsi qualche domanda, di sapere dove si trovava e perché era stata portata lì. No, in fondo non le importava, la corrente era alla sua portata, lo sapeva, quel fiume poteva andare senza incontrare resistenza.
Attese, muovendo i piedi torturati dalle scarpe strette. Le tolse, lanciandone una che andò ad infilarsi in un accrocchio di gente. Il nodo umano si sciolse incredulo, accerchiando l’oggetto volante.
Si mise la mano sulla bocca trattenendo una risata. Fermò una donna con un camice da infermiera, chiese dove andare e le offrì la mano per farsi accompagnare, senza ricevere risposta.
L’atrio lentamente si svuotò. Rimase sola con il suo borsone e le scarpe ancora sparpagliate.
L’infermiera tornò, le chiese il nome e le indicò il numero di una stanza da raggiungere al primo piano. La rimproverò per essere rimasta scalza e la invitò a rimediare. Salì dove le era stato detto e aprì la porta trovando nella camera due bambine con i visi arrossati e capelli raccolti in trecce ordinate, che salutavano quelli che dovevano essere madri e padri.
Arricciò il naso indispettita, non voleva compagnia e del resto sapeva che non l’avrebbe avuta. I presenti alla sua comparsa si strinsero contro il muro quasi spaventati. Volse lo sguardo verso uno specchio appeso al muro e comprese.
Lei era diversa, non era una di loro, aveva l’aria selvaggia, i capelli arruffati, gli occhi scavati. Poteva essere gravemente malata, ma sollevò il ciglio guardandoli di traverso, non volendo altro che sottolineare quanto la sua malattia fosse più grave del previsto. Ma non c’erano dottori, non c’erano medicine e davvero nessuno di loro avrebbe mai compreso l’origine o la natura del suo male. Salutò alzando la mano, appoggiò il borsone e incurante di tutti si nascose sotto le lenzuola del letto assegnato. Era numerato, non poteva sbagliare, dei numeri sapeva che ci si poteva fidare. Almeno era vicino alla finestra. Scivolò nel sonno con un battito tra le costole accelerato.
L’indomani non le restò che osservare, lasciarsi guidare dall’istinto per capire cosa fare. Aveva provato a parlare alle sue compagne di stanza, ricevendo solo un sommesso ridacchiare e parlottare tra le orecchie. Sollevò le spalle e si disse che non aveva nessuna importanza.
Doveva essere una specie di sanatorio, non si sbagliava, tra i cartelli nei corridoi aveva letto da qualche parte “Terme”.
Che si erano inventati stavolta?
Avvistò l’infermiera della sera prima e la inseguì, finalmente si decise a chiedere qualche spiegazione. Era stata mandata lì per i suoi problemi di salute e ci sarebbe rimasta a tempo indeterminato.
Tempo? Che razza di parola era mai il tempo? Come doveva misurarlo lei? In digiuni, lacrime, silenzi?
Avrebbe frequentato una scuola interna, avrebbe dovuto rispettare delle regole, essere educata e ubbidiente.
Le guardava la bocca muoversi, fingendo di capire, assentendo alle raccomandazioni con interesse. Una prigione valeva l’altra, neanche quella sarebbe stata diversa, neanche lei sarebbe stata diversa. Nessuno, nessuno mai avrebbe potuto sentirsi padrone del suo cuore, niente era degno di una sua emozione, il corpo potevano anche piegarlo, spostarlo di peso da un posto all’altro e lei l’avrebbe lasciato fare. Era stata sballottata già altre volte come una palla incandescente, nulla era stato in grado di trattenerla a lungo senza lasciarsi ustionare.
I giorni scorrevano uguali anche lì, lei trasparente se ne lasciava attraversare, abituandosi ad essere un’entità senza nome, indicata con un “Tu” e un dito che minaccioso sembrava allungarsi fino a piantarsi in fronte, insopportabile quando pareva marchiarla a fuoco di una colpa di cui non sapeva darsi ragione.
Uno di quei tanti giorni comparve lui, un ometto con i capelli bianchi che indisciplinati svolazzavano ai lati delle tempie. Entrò in classe, lei isolata nell’ultima fila lo notò subito. Ebbe un sussulto, un presentimento benevolo al quale voleva credere, tanto che dopo diverso tempo sorrise.
Tutti i bambini vennero invitati a seguirlo e nella confusione lei cercava di non perderlo di vista. Furono disposti in file a due a due, non badò al fatto che alla sua destra o sinistra non ci fosse nessuno, perché era abituata ad occupare vuoti senza farsene meraviglia; le brillavano gli occhi e seguiva con i piedi sofferenti nelle scarpe strette il richiamo della voce dell’uomo dai buffi capelli.
Camminarono qualche minuto attraversando strade trafficate che non aveva mai visto, i rumori delle macchine la stordivano, le voci miste tra risate e frasi sottratte al vento le davano un’asia che tagliava il respiro. Impaurita, come un animale ferito da quel che poteva essere la sua esistenza e non era stata, con il respiro corto si fermò, dopo essere fuggita in cerca di un marciapiede di salvataggio. Si girò ansimante e trattenne il fiato estasiata. Davanti ai suoi occhi: il mare!
Le costole allentarono la presa, le spalle cedettero, le braccia si distesero, l’aria entrava fresca e piena in ogni parte di quel minuscolo tempio d’ossa. Respirava, ingoiava l’aria per la prima volta e, come un primo vagito, davanti a quell’immensa distesa d’acqua azzurra gridò il suo nome. Gridò, perché tutti lo sentissero. Lo ripetè una, due volte, diverse volte puntando il dito contro tutti quei fantasmi che le stavano intorno senza vederla. E come le onde furiose si scontravano sugli scogli, così lei, risvegliata di colpo da un terribile incantesimo, lottò con quel groviglio stretto nel petto, la corazza che aveva tolto tutti i colori, i suoni, gli odori e le emozioni del suo mondo. Aveva dato tutto al banco dei pegni dei dolori, ora che sapeva respirare, ora che aveva conosciuto il mare, che il mare la conteneva quanto il suo nome conteneva quello del mare, tra quei flutti così pieni e gonfi d’acqua che potevano abbracciare cielo e terra senza perdere bellezza e forza, si vedeva nella visione di un futuro che poteva finalmente somigliarle.
Fu richiamata all’antica prigione, ci ritornò senza protestare, ci sarebbero voluti anni, lo sapeva, ma ad ogni gesto, ogni suono in disaccordo con la sua anima lei lo avrebbe sostituito con il grido di quel mare, che le aveva regalato il desiderio di qualcosa da salvare.
Mirela Stillitano