“Gli restava di quei giorni passati a combattersi, un senso torbido d’impurità; gli pareva di aver barattato l’antica innocenza non con la condizione virile e serena che aveva sperato, bensì con uno stato confuso e ibrido in cui, senza contropartite di alcun genere, alle antiche ripugnanze se ne aggiungevano delle nuove.”
Il nonsenso e il male di vivere sono i tratti distintivi degli autori e in generale degli artisti del ‘900. Nel secondo dopoguerra però questa peculiarità mi crea un forte sentimento di angoscia e di inquietudine. Per questo motivo faccio molta fatica a apprezzare le opere di questo periodo: quelle di Calvino, di Pavese, di Moravia… Ero preparata dunque quando ho iniziato “Agostino” per il gruppo di lettura Ad Maiora, a una lettura non gradita e così è stato. Agostino è un ragazzino che vive con la madre e con lei, nel momento della pubertà, inizia a avere un rapporto conflittuale, fatto d’amore, ma anche di incomprensione e tumulto; durante un’estate, il protagonista conosce una banda di teppisti, capeggiati da un orribile bagnino, che lo “istruiscono” alla sessualità. Dopo le scoperte che Agostino fa, la relazione con la madre diventa ancora più difficile, non riconoscendo in lei solo la figura materna ma anche quella di donna. La cattiveria, la pedofilia, le pulsioni che Moravia espone in questo romanzo, sono le ragioni dell’angoscia che ho provato leggendolo e che non mi hanno permesso di godermelo. Ha uno stile di scrittura che mi piace, ma ciò che racconta è per me davvero duro da digerire.
Alessandra Micelli